Fascino della memoria e modi non corretti di studiarla
LORENZO L. BORGIA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 02 maggio 2020.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia).
Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società,
la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste
e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
Ho più
ricordi di quanti ne avrei se avessi mille anni.
[Baudelaire, Spleen]
Ho il dono,
spesso doloroso, di avere una
memoria che
il tempo non altera mai…
[A. de Vigny, Servitude
et grandeur militaire]
[PRIMA E SECONDA PARTE – VERSIONE COMPLETA]
Il fascino della memoria in ogni sua forma, dai reperti archeologici al
cinema d’epoca, dalla prodigiosa capacità di ricordare ai meccanismi molecolari,
è parte integrante della sensibilità culturale e del desiderio di conoscenza di
ciascuno, probabilmente perché in una sia pur remota sede della coscienza
esiste la consapevolezza che nella memoria si costituisce l’identità[1]. Si comprende che la seduzione di
questo fascino abbia indotto studiosi di ogni epoca a indagare i molteplici
aspetti del valore della conservazione delle tracce dell’esperienza passata, e
si comprende come la rivoluzione conoscitiva introdotta dalla scoperta delle
basi neurobiologiche della memoria abbia accresciuto il numero degli studi
multidisciplinari, in gran parte finalizzati a scongiurare il rischio di operazioni
riduzionistiche che avrebbero gettato alle ortiche un enorme patrimonio di
conoscenza umanistica accumulato in oltre due millenni di storia.
Si comprende meno la superficialità acritica con la quale si siano
sostenute e sponsorizzate come attività di alta cultura operazioni di raccolta
poco discriminata di spigolature, citazioni, brani e concetti tratti da
filosofi, psicologi, medici e neuroscienziati del passato, in un calderone
infarcito di errori spesso grossolani dovuti all’ignoranza di coloro che hanno compilato
la raccolta. Il riferimento principale è a un saggio del 2000 adottato, a venti
anni di distanza, in corsi post-universitari sulla memoria: Il Senso
della Memoria di Jean-Yves Tadié e Marc Tadié[2], rispettivamente professore di
letteratura francese alla Sorbona e professore di neurochirurgia. I due autori,
ottimi interpreti della propria professione[3], si sono rivelati dei dilettanti
incauti nell’improvvisarsi esperti di una materia della quale – spiace dirlo – mostrano
una conoscenza molto vaga.
Per fare sfoggio di erudizione fin dall’introduzione, i due Tadié caratterizzano la memoria delle fasi della vita con questi
riferimenti: l’uomo viene al mondo come un bambino freudiano, cresce come un
giovane bergsoniano, ritrova come Baudelaire il passato in un profumo, diviene
poi proustiano e infine invecchierà come Chateaubriand che non trovava più
conforto nei suoi ricordi. E, subito dopo, dichiarano i loro intenti: “Questo
libro è dedicato quindi alla vita, alla natura e alla storia fisica e mentale
del ricordo”[4].
La confusione, se non altro, è dichiarata fin dall’esordio: il fondatore
della psicoanalisi, un filosofo fenomenologo, un poeta, un grande scrittore e,
infine, un politico e letterato, nessuno dei quali è stato specificamente uno
studioso della memoria, presentati come riferimenti paradigmatici e messi
insieme in un gioco in cui il materiale tratto da questi autori è assemblato in
una specie di bizzarro collage, secondo una sorta di “gusto artistico
soggettivo” degli autori. In che modo questo procedere possa creare una “storia
fisica e mentale del ricordo” è difficile da comprendere.
Rifiutandosi di studiare anche solo nell’introduzione metodologica le discipline
psicologiche e neuroscientifiche che da decenni hanno sviluppato vasti ambiti
di conoscenza concettuale sulle varie forme della memoria, e ostinandosi a considerare
tutto il materiale consultato e riprodotto come frutto di una creazione
letteraria o di una speculazione fondata su principi elementari e spesso
superati, i due Tadié finiscono per fare sintesi
personali e spesso lontane dalla realtà, come quella che riportiamo qui di
seguito:
“In che modo è possibile osservare la memoria? Gli studi sperimentali sul
genere animale (sic!) ne analizzano alcuni meccanismi, tra cui una forma
elementare che consiste nell’adattamento del comportamento all’ambiente. […] La
psicologia comportamentale[5], la vita quotidiana e le malattie
permettono di studiare la memoria umana. […] La terza via, che è quella più
vicina alla realtà, è quella di ricercatori come Freud, Bergson o Edelman che,
avendo analizzato i comportamenti umani e i disturbi che presentavano i malati,
ne hanno dedotto un sistema completo”[6].
L’ultima affermazione, quella della terza via, lascia sconcertati:
sicuramente non si addice a Bergson che, filosofo e letterato insignito del Premio
Nobel per la letteratura, non era medico e non aveva studiato pazienti amnesici[7]; ma nemmeno a Edelman, che era
biologo molecolare e, quando ha deciso di passare allo studio delle
neuroscienze, ha sviluppato una teoria darwiniana dello sviluppo e del
funzionamento del sistema nervoso, prendendo le mosse da molecole quali le SAM
e le CAM – alcune scoperte da lui – e da tre processi che gli consentivano di dare
soluzione a problemi fondamentali delle neuroscienze dell’epoca[8]. Edelman, che non è stato uno
studioso della memoria, era solito dire: la memoria è una caratteristica di
sistema, ossia ciascun sistema, dalla molecola di DNA alle reti neuroniche
alla base del pensiero astratto, ha il suo tipo di memoria. Era ben lontano dal
concepire costruzioni interpretative sulla dimensione psicologica dell’esperienza
umana della memoria, come i filosofi fenomenologi francesi.
Freud, unico dei tre che era medico e “aveva studiato i disturbi che
presentavano i malati” non lo aveva fatto mai con l’interesse primario per la
memoria. Avrebbe potuto, se avesse voluto, ma le ragioni che lo hanno spinto a
seguire le lezioni di Charcot lo condussero alla
scoperta della dimensione inconscia della psiche, responsabile del meccanismo
psicologico della dimenticanza di qualcosa di insopportabile per la coscienza,
attraverso la rimozione. Ma tutto questo non ha a che fare con la memoria comunemente
intesa nelle sue versioni episodica e semantica, se non in maniera molto
indiretta, come lo stesso Freud spiegava.
È naturalmente apprezzabile l’intento di considerare l’argomento memoria da
varie angolazioni, come tradizionalmente si fa negli approcci pluridisciplinari
o interdisciplinari. Ma, quando il termine memoria è usato da un poeta o
da uno scrittore per comunicare sensazioni, sentimenti e stati d’animo, dovrebbe
essere evidente che la sua relazione semantica con la stessa parola impiegata
da un neurofisiologo o da uno scienziato cognitivo è molto generica, se non in
qualche caso solo metaforica. Mettere sullo stesso piano i concetti speculativi
estratti da un testo letterario e le conclusioni sperimentali sulla natura di
particolari processi connessi con la capacità di registrare e rievocare, è un’operazione
che appartiene in senso proprio ed etimologico all’ordine dell’equivoco:
con lo stesso nome si indicano due cose diverse.
Ecco cosa si legge: “Lo studio dei disturbi legati alla memoria e alle
lesioni anatomiche osservate in queste affezioni permette di identificare i
circuiti e di localizzare le zone cerebrali colpite da alcune sindromi amnesiche.
Lo studio del comportamento complessivo degli esseri umani rende conto della
complessità della memoria nel momento in cui questa viene esercitata in
situazione. Questo ultimo approccio è stato privilegiato. Scrittori e poeti
attribuiscono un’importanza capitale ai loro ricordi, o a quelli dei loro
personaggi”[9].
Non si tratta semplicemente, come si afferma nel libro, di due approcci
diversi, ma di attività che producono due “grandezze eterogenee”, per dirlo con
un’espressione di logica matematica.
Lo studio neuropsicologico della neurologia classica, richiamato dagli
autori, aveva lo scopo primario di scoprire la causa dei sintomi, identificando
la sede e la natura della lesione. Dopo l’identificazione dell’area cerebrale
lesa nell’afasia motoria da parte di Broca, nell’afasia sensitiva da parte di Wernicke e nell’alessia da parte di Dejerine,
si sviluppò un paradigma di studio delle basi del linguaggio, assumendo che i
pazienti rappresentassero dei tragici esperimenti naturali.
Questo strumento teorico, che prenderà il nome di paradigma
anatomo-clinico, pur costituendo un fondamento all’epoca imprescindibile
per stabilire correlazioni fra topografia della lesione e sintomi, sarà compiutamente
applicato solo alle funzioni comunicative, rimanendo un riferimento marginale
per le sindromi amnesiche. Infatti, sebbene la memoria abbia mostrato una
localizzazione nel giro fusiforme per il riconoscimento dei volti,
si registrano disturbi della memoria simili per lesioni fra loro molto diverse
e profili di alterazione diversi per danni della stessa regione cerebrale. Ma,
pur volendo seguire l’idea tanto suggestiva quanto approssimativa dei Tadié, si deve aver presente che in questo genere di studi
esiste una specificità di scopo, metodo e oggetto di ricerca; intendendo per “oggetto”
una precisa concezione della facoltà di ricordare, espressa quale prestazione
della coscienza dichiarativa, distinta in due forme principali di registrazione
e rievocazione: quella delle vicende autobiografiche e quella di nomi, nozioni
e dati. Non è superfluo sottolineare che, in neuropsicologia come nelle
neuroscienze cognitive, i concetti operativi che definiscono i tipi di memoria
designano una facoltà misurabile.
Ormai da quasi mezzo secolo l’indagine neuroscientifica e psicologica sulla
memoria non può prescindere da una distinzione in tipi secondo criteri ormai
generalmente condivisi. Le classificazioni compiute e dettagliate risentono dei
metodi sperimentali adoperati per l’ottenimento dei dati alla base delle
nozioni di riferimento di ciascun campo metodologico e, pertanto, possono
presentare fra loro delle differenze; tuttavia, la distinzione nella memoria
umana fra processi espliciti liberamente accessibili alla coscienza come
contenuti del pensiero e processi impliciti che fungono da supporto all’agire
mentale e materiale come automatismi inconsapevoli, è ormai universalmente
accettata.
Si riporta qui di seguito una classificazione originata da studi
neuropsicologici e di neuroscienze cognitive, ma accettata anche dai
neurofisiologi e impiegata dai neurobiologi come riferimento umano per gli
studi di comparazione con altre specie.
Si distinguono due ordini di processi: il primo, direttamente accessibile
alla coscienza e comunicabile, definito memoria dichiarativa; il secondo,
costituito da varie forme di conservazione dell’esperienza non accessibili al
diretto esame cosciente, detto per contrasto memoria non dichiarativa[10].
La memoria dichiarativa costituisce la forma con la quale si
identifica comunemente la facoltà umana di ricordare e consiste nella
formazione e nel recupero dei ricordi coscienti: quando si dice che qualcuno ha
una buona memoria, riferendosi a una capacità efficace ed efficiente nel
ricordare nozioni, dati, nomi, fatti, persone e circostanze, si parla di questo
tipo di processo. La memoria dichiarativa, prerogativa umana perché
strettamente connessa al linguaggio verbale e al pensiero simbolico, è alla
base dell’istruzione, della cultura e della comunicazione. In questa facoltà si
riconoscono basi neurofunzionali apparentemente distinte per due tipi di
processi: la memoria semantica, termine convenzionale col quale si
indica la capacità di ricordare nozioni, nomi, numeri e dati, ossia unità di
significato associate a una rappresentazione simbolica circoscritta; e la memoria
episodica, ovvero la conservazione di esperienze di vita vissuta
rievocabili come episodi esprimibili in una dimensione narrativa o descrittiva.
Per queste caratteristiche, la memoria semantica costituisce il mezzo
principale per l’apprendimento scolastico e professionale, mentre la memoria
episodica rappresenta il patrimonio di conoscenza autobiografica di un
soggetto.
La memoria non dichiarativa costituisce l’apprendimento non
direttamente accessibile alla coscienza nei suoi contenuti, ma reso evidente da
prestazioni, risposte e comportamenti. Se la memoria dichiarativa è un sapere
qualcosa (knowing what),
spesso l’apprendimento non dichiarativo consiste nell’acquisizione di un’abilità
espressa come automatismi di esecuzione (knowing
how) o di comportamento. Si distingue in memoria
procedurale e memoria implicita.
La memoria procedurale, sulla quale si basano numerose attività
della vita quotidiana, consiste in blocchi di procedure psicomotorie, schemi
posturali e modelli d’azione, integrati e organizzati nella forma di configurazioni
funzionali stabili (pattern) corrispondenti a definiti modelli di
esecuzione. Nelle forme più semplici, come nella memoria procedurale
necessaria ad andare in bicicletta, i modelli di esecuzione sono schematici;
nelle forme più articolate, come quelle alla base dell’abilità di suonare uno
strumento musicale a tasti o corde, ciascun pattern di base del
movimento delle dita presenta repertori di varianti isomorfe, plasticità e
integrazione.
La memoria implicita nell’uomo è distinta in tre tipi principali: associativa
(emozionale e senso-motoria), non associativa (abitudine e
sensibilizzazione) e impressiva (il cosiddetto priming).
Anche se i Tadié affrontano l’argomento delle
basi biologiche della memoria umana in vari paragrafi, per lo più dedicati a riferimenti
storici e nozioni molto elementari su neuroni e circuiti, finiscono per
neutralizzarne il significato, perché loro stessi non ne hanno compreso il
senso. Spigolando da libri mai studiati e convinti che “ancora non si è compreso
nulla”, pongono l’uno accanto all’altro la descrizione della forma dei neuroni,
nozioni sulla memoria cellulare, come il potenziamento sinaptico a lungo
termine (LTP), nomi di neurotrasmettitori con commenti da pessima divulgazione
di oltre cinquant’anni fa e un presunto funzionamento anatomico della memoria,
con poco più di una pagina dedicata a una loro puerile ipotesi[11] sul “meccanismo di funzionamento
globale della memoria”, che serve a cancellare un secolo di studi e riportare
tutto nel calderone di una visione ottocentesca.
Infatti, per rendere plausibile l’operazione compiuta dai Tadié, si dovrebbe tornare a quando non si erano ancora distinti
tipi funzionali di memorie diverse, ciascuna con la propria base
neurobiologica. Gli scrittori e i poeti che, come loro osservano, attribuiscono
un’importanza capitale ai loro ricordi, o a quelli dei loro personaggi,
fanno riferimento ai contenuti di esperienza connessi quasi esclusivamente con
un tipo di memoria esplicita o dichiarativa, ossia la memoria episodica. Non vi
è dubbio che leggere i loro scritti possa aiutarci a conoscere aspetti
importanti della nostra vita interiore, a stimolare lo sviluppo di un
particolare tipo di sensibilità e darci il piacere di un testo che può
costituire un’occasione per evocare sentimenti, affetti, emozioni e riflessioni.
E non possiamo dimenticare che una parte degli effetti prodotti da un testo
letterario può essere assimilata a quelli che si generano in noi nella
fruizione delle opere di ogni altro campo dell’arte. Ma è evidente come questa
preziosa eredità culturale, sviluppata nella dimensione del vissuto episodico,
costituisca un alto livello di sintesi di processi, che implica una serie
di convenzioni, a cominciare da quella linguistica, che denomina i sentimenti consentendo
loro di esistere nel pensiero[12], per finire con quella dei modelli
culturali e individuali che definiscono la scala di valori entro cui
rappresentare e giudicare i fatti esperiti.
Criticabile anche la distinzione tra memoria e reminiscenza[13], perché la prima sarebbe secondo
loro il recupero di un oggetto tal quale era stato percepito, secondo un
antiquato modello del contenitore/contenuto, mentre la seconda richiederebbe
uno sforzo di ricostruzione. È plausibile, in chiave letteraria, l’introduzione
di questo criterio per distinguere due esperienze soggettive obiettivabili, così
come appaiono nella realtà di ciascuno: ognuno di noi ha dei ricordi che
affiorano limpidi e chiari alla mente e altri che richiedono uno sforzo di
ricostruzione che, a volte, ha un esito che non ci lascia del tutto convinti.
Non ha alcuna giustificazione ritenere che questi due differenti tipi di
esperienza definiscano, a tutti i livelli, due tipi di memoria.
In realtà, oggi sappiamo che ogni rievocazione, richiamo, attualizzazione o
esecuzione di una traccia memorizzata è sempre una ricostruzione: quando la
traccia è bene consolidata, anche nelle sue connessioni interne, la
ricostruzione automatica e involontaria fornisce alla coscienza un elemento che
non richiede ulteriori processi cognitivi, quando la traccia è debole, dobbiamo
compiere processi di associazione, induzione e deduzione per tessere in termini
di plausibilità la trama che collega le tracce rimaste. In ogni caso, il procedere
intuitivo e introspettivo dei Tadié si riferisce
implicitamente alla memoria episodica, presentata come memoria tout court.
Nello stesso periodo in cui è stato pubblicato Il Senso della
Memoria, vedeva le stampe l’edizione italiana di Alla ricerca della
memoria – il cervello, la mente e il passato di Daniel L. Schacter, celebre professore della Harvard University che
ha dedicato tutta la sua vita professionale a oservazioni
cliniche e studi sperimentali sulla memoria, collaborando con i maggiori
esperti del campo[14]. Schacter,
che aveva cominciato a studiare i processi di registrazione e rievocazione nel
1975 con Herbert Crovitz e si era specializzato con Endel Tulving, in quel saggio
aveva raccolto oltre venti anni di ricerche ed esperienze cliniche, con il
contributo e la supervisione di una lunga lista di studiosi di fama
internazionale, fra cui spiccano Elizabeth Loftus e
il Premio Nobel Eric Kandel.
Tutt’altro che un lavoro esclusivamente tecnico, da contrapporre a un più
piacevole testo redatto in stile letterario, il libro di Daniel Schacter si apre con una lunga citazione da Cent’anni di
solitudine del Nobel per la Letteratura Gabriel Garcia Marquez, in cui si
immagina che nel piccolo villaggio di Macondo si stesse propagando una strana malattia
contagiosa che comportava la perdita della memoria per gradi, secondo quest’ordine:
prima gli abitanti del piccolo centro perdevano i ricordi d’infanzia, poi i
nomi e le funzioni degli oggetti e, infine, la consapevolezza del proprio
essere. Per porre rimedio al problema, il fabbro del villaggio, che non
riusciva più a ricordare la parola “incudine”, decide di etichettare ogni
oggetto e finanche la mucca, sulla cui etichetta aggiunge che bisogna mungerla
ogni girono per avere il latte necessario a fare il caffelatte. Angosciato dal
pensiero di dover trascorrere la vita a scrivere etichette, il fabbro crea una
macchina della memoria, una sorta di computer nel quale immagazzinare i ricordi
di ciascun abitante del villaggio. Il lavoro si interrompe quando un uomo, che
il fabbro credeva uno straniero, lo guarisce dalla malattia e, così, lui lo
riconosce come un caro vecchio amico. Schacter prende
le mosse da questo romanzo per descrivere il mondo visto con gli occhi dei suoi
tanti pazienti amnesici o dismnesici, dei quali
descrive le sindromi lungo la successione di capitoli che ripercorre il cammino
compiuto dalla ricerca.
Uno dei pregi del libro consiste nel fornire spiegazioni a varie forme di
confabulazione[15], quale effetto di iperattività compensativa
da parte di strutture cerebrali indenni e simmetriche di quelle lese.
Un sessantunenne con lesione diffusa del lobo frontale destro, sposato da
più di trent’anni, aveva perso i ricordi autobiografici di tutto quel periodo e
ricordava di aver preso moglie solo da quattro mesi. I medici, cercando di
aiutarlo a ricordare, gli rammentarono che aveva quattro figli, evidenziando la
contraddizione con l’essere sposo recente, e lui rispose sorridendo: “Mica male
per quattro mesi”. Gli chiesero allora l’età dei figli, e lui rammentò che il maggiore
doveva averne 32 e il più giovane 22. Gli domandarono come fosse possibile per
una coppia sposata solo da qualche mese, ma lui non si perse d’animo e con
apparente certezza affermò: “Li abbiamo adottati”[16].
Altri interessanti esempi di confabulazione compensativa, ossia prodotta quando
manca l’informazione intracerebrale che normalmente supporta la nostra
consapevolezza, Schacter li fornisce descrivendo il
paziente Frank, un avvocato sofferente di amnesia dell’origine[17], a causa di una lesione al lobo
frontale destro, studiata mediante PET. Il paziente poteva ricordare quanto gli
era stato detto dal proprio interlocutore poco prima, ma non rammentare che
fosse stato lui a dirlo; così presentava anche falsi riconoscimenti di parole o
oggetti nuovi, che lui ricordava erroneamente di aver già visto. Alcuni aspetti
del comportamento ai test di Frank erano simili a quelli dei pazienti con
cervello diviso, i quali, ricevendo l’informazione ad un solo emisfero,
rivelavano il comportamento di un cervello privo della metà controlaterale. La
lesione al lobo frontale destro faceva mancare il supporto informativo intracerebrale,
inducendo per compensazione neurofunzionale la confabulazione, ossia l’invenzione
estemporanea, dovuta all’attività eccessiva e non integrata del lobo frontale
sinistro.
Concludendo con un sorriso, si può osservare che, mancando ai Tadié la conoscenza degli studi sulla memoria, si sono
lasciati andare ad una confabulazione letteraria compensativa.
L’autore della
nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla
lettura delle recensioni di studi di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Lorenzo L.
Borgia
BM&L-02 maggio 2020
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La Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia, affiliata alla International
Society of Neuroscience, è registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze,
Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Questo concetto è stato espresso
ed esposto analiticamente dal presidente della nostra società scientifica in numerose
occasioni di studio della memoria; sollecitato da casi clinici di pazienti
psichiatrici e neurologici esaminati già durante la sua formazione, ha
lungamente indagato il rapporto fra i presupposti impliciti di identità presenti
nelle memorie e lo psichismo attuale.
[2] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié,
Il Senso della Memoria. Dedalo, Bari 2000. (Il volume è stato pubblicato
con il contributo dei Ministeri della Cultura e degli Affari Esteri francesi).
[3] In particolare, Jean-Yves Tadié è
considerato uno dei massimi esperti di Proust, al quale ha dedicato una
ponderosa biografia e numerosi saggi, oltre ad aver curato un’apprezzata
edizione de La ricerca del tempo perduto.
[4] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié,
Il Senso della Memoria, p. 7, Dedalo, Bari 2000. Il volume nasce in Francia come
progetto finanziato dal Ministero della Cultura e dal Ministero degli Affari
Esteri.
[5] Al massimo: la psicologia
cognitiva. Lo studio scientifico della memoria umana nasce in seno alla neurologia,
che specializza la branca della neuropsicologia che studiava i disturbi della
memoria da lesione cerebrale, accanto alle afasie e alle aprassie; dalla
neuropsicologia sperimentale sono nate le moderne neuroscienze cognitive.
[6] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié,
op. cit., pp. 10-11.
[7] Si era limitato a leggere, per
il suo libro Materia e Memoria, molti studi sull’argomento.
[8] I tre processi sono la selezione
durante lo sviluppo, la selezione guidata dall’esperienza e il rientro
fra aree diverse del cervello.
[9] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié,
op. cit., p. 11.
[10] Cfr. “La Memoria e il Sonno”, nella
sezione del sito AGGIORNAMENTI – scheda introduttiva, BM&L-Italia, Firenze
2007. Negli animali si adopera la distinzione più schematica in memoria
esplicita, considerata un equivalente della memoria dichiarativa umana
che, essendo legata al linguaggio verbale e all’uso di simboli, non è presente
in quanto tale negli altri mammiferi e solo in parte è accostabile a processi
presenti nelle scimmie antropomorfe, e memoria implicita, corrispondente
alla non-dichiarativa della nostra specie.
[11] Verosimilmente di Marc Tadié.
[12] Si trascura spesso il fatto che
il pensiero si sviluppa in ciascuno di noi come articolazione di significati
grazie all’apprendimento dei concetti e del senso delle parole e delle frasi
acquisiti con la lingua madre per imitazione e, poi, per studio scolastico. È
possibile il pensiero non-verbale, e possiamo farne uso cosciente con i metodi
di meditazione e le tecniche di rilassamento con concentrazione su immagini e
stati del corpo e della mente; tuttavia, è innegabile che la massima parte del
nostro pensiero sia costituita da linguaggio interno.
[13] Gli autori la ricavano da
Aristotele ma, ponendola fuori dal contesto del modello speculativo adottato dal
filosofo, come se fosse un assoluto fenomenico – così come fanno con tante
altre distinzioni operate intuitivamente da scrittori sulla base di esperienze introspettive
– la assumono quale paradigma e si avventurano in un lavoro creativo del tutto
arbitrario che li porta a coniare la definizione di “reminiscenza senza ricerca”
per il ricordo involontario. Cfr. Jean-Yves Tadié e Marc Tadié, op. cit., p. 23.
[14] Daniel L. Schacter, Alla ricerca della memoria
– il cervello, la mente e il passato. Einaudi, Torino 2001. Il saggio è
stato premiato con il William James Book Award della American Psychological Association e alla sua pubblicazione fu incluso
tra i migliori libri dell’anno dalla New York Times Book Review.
[15] Dal latino cum fabula, l’espressione
si riferisce a costruzioni, spiegazioni o racconti inventati per riempire falle
di memoria.
[16] Cfr. Daniel L. Schacter, op. cit. p. 119.
[17] Questo disturbo era stato descritto
da Giuseppe Perrella col nome di amnesia della fonte.