Fascino della memoria e modi non corretti di studiarla

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XVII – 02 maggio 2020.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

 

Ho più ricordi di quanti ne avrei se avessi mille anni.

[Baudelaire, Spleen]

 

Ho il dono, spesso doloroso, di avere una

memoria che il tempo non altera mai…

[A. de Vigny, Servitude et grandeur militaire]

 

 

[PRIMA E SECONDA PARTE – VERSIONE COMPLETA]

 

Il fascino della memoria in ogni sua forma, dai reperti archeologici al cinema d’epoca, dalla prodigiosa capacità di ricordare ai meccanismi molecolari, è parte integrante della sensibilità culturale e del desiderio di conoscenza di ciascuno, probabilmente perché in una sia pur remota sede della coscienza esiste la consapevolezza che nella memoria si costituisce l’identità[1]. Si comprende che la seduzione di questo fascino abbia indotto studiosi di ogni epoca a indagare i molteplici aspetti del valore della conservazione delle tracce dell’esperienza passata, e si comprende come la rivoluzione conoscitiva introdotta dalla scoperta delle basi neurobiologiche della memoria abbia accresciuto il numero degli studi multidisciplinari, in gran parte finalizzati a scongiurare il rischio di operazioni riduzionistiche che avrebbero gettato alle ortiche un enorme patrimonio di conoscenza umanistica accumulato in oltre due millenni di storia.

Si comprende meno la superficialità acritica con la quale si siano sostenute e sponsorizzate come attività di alta cultura operazioni di raccolta poco discriminata di spigolature, citazioni, brani e concetti tratti da filosofi, psicologi, medici e neuroscienziati del passato, in un calderone infarcito di errori spesso grossolani dovuti all’ignoranza di coloro che hanno compilato la raccolta. Il riferimento principale è a un saggio del 2000 adottato, a venti anni di distanza, in corsi post-universitari sulla memoria: Il Senso della Memoria di Jean-Yves Tadié e Marc Tadié[2], rispettivamente professore di letteratura francese alla Sorbona e professore di neurochirurgia. I due autori, ottimi interpreti della propria professione[3], si sono rivelati dei dilettanti incauti nell’improvvisarsi esperti di una materia della quale – spiace dirlo – mostrano una conoscenza molto vaga.

Per fare sfoggio di erudizione fin dall’introduzione, i due Tadié caratterizzano la memoria delle fasi della vita con questi riferimenti: l’uomo viene al mondo come un bambino freudiano, cresce come un giovane bergsoniano, ritrova come Baudelaire il passato in un profumo, diviene poi proustiano e infine invecchierà come Chateaubriand che non trovava più conforto nei suoi ricordi. E, subito dopo, dichiarano i loro intenti: “Questo libro è dedicato quindi alla vita, alla natura e alla storia fisica e mentale del ricordo”[4].

La confusione, se non altro, è dichiarata fin dall’esordio: il fondatore della psicoanalisi, un filosofo fenomenologo, un poeta, un grande scrittore e, infine, un politico e letterato, nessuno dei quali è stato specificamente uno studioso della memoria, presentati come riferimenti paradigmatici e messi insieme in un gioco in cui il materiale tratto da questi autori è assemblato in una specie di bizzarro collage, secondo una sorta di “gusto artistico soggettivo” degli autori. In che modo questo procedere possa creare una “storia fisica e mentale del ricordo” è difficile da comprendere.

Rifiutandosi di studiare anche solo nell’introduzione metodologica le discipline psicologiche e neuroscientifiche che da decenni hanno sviluppato vasti ambiti di conoscenza concettuale sulle varie forme della memoria, e ostinandosi a considerare tutto il materiale consultato e riprodotto come frutto di una creazione letteraria o di una speculazione fondata su principi elementari e spesso superati, i due Tadié finiscono per fare sintesi personali e spesso lontane dalla realtà, come quella che riportiamo qui di seguito:

“In che modo è possibile osservare la memoria? Gli studi sperimentali sul genere animale (sic!) ne analizzano alcuni meccanismi, tra cui una forma elementare che consiste nell’adattamento del comportamento all’ambiente. […] La psicologia comportamentale[5], la vita quotidiana e le malattie permettono di studiare la memoria umana. […] La terza via, che è quella più vicina alla realtà, è quella di ricercatori come Freud, Bergson o Edelman che, avendo analizzato i comportamenti umani e i disturbi che presentavano i malati, ne hanno dedotto un sistema completo”[6].

L’ultima affermazione, quella della terza via, lascia sconcertati: sicuramente non si addice a Bergson che, filosofo e letterato insignito del Premio Nobel per la letteratura, non era medico e non aveva studiato pazienti amnesici[7]; ma nemmeno a Edelman, che era biologo molecolare e, quando ha deciso di passare allo studio delle neuroscienze, ha sviluppato una teoria darwiniana dello sviluppo e del funzionamento del sistema nervoso, prendendo le mosse da molecole quali le SAM e le CAM – alcune scoperte da lui – e da tre processi che gli consentivano di dare soluzione a problemi fondamentali delle neuroscienze dell’epoca[8]. Edelman, che non è stato uno studioso della memoria, era solito dire: la memoria è una caratteristica di sistema, ossia ciascun sistema, dalla molecola di DNA alle reti neuroniche alla base del pensiero astratto, ha il suo tipo di memoria. Era ben lontano dal concepire costruzioni interpretative sulla dimensione psicologica dell’esperienza umana della memoria, come i filosofi fenomenologi francesi.

Freud, unico dei tre che era medico e “aveva studiato i disturbi che presentavano i malati” non lo aveva fatto mai con l’interesse primario per la memoria. Avrebbe potuto, se avesse voluto, ma le ragioni che lo hanno spinto a seguire le lezioni di Charcot lo condussero alla scoperta della dimensione inconscia della psiche, responsabile del meccanismo psicologico della dimenticanza di qualcosa di insopportabile per la coscienza, attraverso la rimozione. Ma tutto questo non ha a che fare con la memoria comunemente intesa nelle sue versioni episodica e semantica, se non in maniera molto indiretta, come lo stesso Freud spiegava.

È naturalmente apprezzabile l’intento di considerare l’argomento memoria da varie angolazioni, come tradizionalmente si fa negli approcci pluridisciplinari o interdisciplinari. Ma, quando il termine memoria è usato da un poeta o da uno scrittore per comunicare sensazioni, sentimenti e stati d’animo, dovrebbe essere evidente che la sua relazione semantica con la stessa parola impiegata da un neurofisiologo o da uno scienziato cognitivo è molto generica, se non in qualche caso solo metaforica. Mettere sullo stesso piano i concetti speculativi estratti da un testo letterario e le conclusioni sperimentali sulla natura di particolari processi connessi con la capacità di registrare e rievocare, è un’operazione che appartiene in senso proprio ed etimologico all’ordine dell’equivoco: con lo stesso nome si indicano due cose diverse.

Ecco cosa si legge: “Lo studio dei disturbi legati alla memoria e alle lesioni anatomiche osservate in queste affezioni permette di identificare i circuiti e di localizzare le zone cerebrali colpite da alcune sindromi amnesiche. Lo studio del comportamento complessivo degli esseri umani rende conto della complessità della memoria nel momento in cui questa viene esercitata in situazione. Questo ultimo approccio è stato privilegiato. Scrittori e poeti attribuiscono un’importanza capitale ai loro ricordi, o a quelli dei loro personaggi”[9].

Non si tratta semplicemente, come si afferma nel libro, di due approcci diversi, ma di attività che producono due “grandezze eterogenee”, per dirlo con un’espressione di logica matematica.

Lo studio neuropsicologico della neurologia classica, richiamato dagli autori, aveva lo scopo primario di scoprire la causa dei sintomi, identificando la sede e la natura della lesione. Dopo l’identificazione dell’area cerebrale lesa nell’afasia motoria da parte di Broca, nell’afasia sensitiva da parte di Wernicke e nell’alessia da parte di Dejerine, si sviluppò un paradigma di studio delle basi del linguaggio, assumendo che i pazienti rappresentassero dei tragici esperimenti naturali.

Questo strumento teorico, che prenderà il nome di paradigma anatomo-clinico, pur costituendo un fondamento all’epoca imprescindibile per stabilire correlazioni fra topografia della lesione e sintomi, sarà compiutamente applicato solo alle funzioni comunicative, rimanendo un riferimento marginale per le sindromi amnesiche. Infatti, sebbene la memoria abbia mostrato una localizzazione nel giro fusiforme per il riconoscimento dei volti, si registrano disturbi della memoria simili per lesioni fra loro molto diverse e profili di alterazione diversi per danni della stessa regione cerebrale. Ma, pur volendo seguire l’idea tanto suggestiva quanto approssimativa dei Tadié, si deve aver presente che in questo genere di studi esiste una specificità di scopo, metodo e oggetto di ricerca; intendendo per “oggetto” una precisa concezione della facoltà di ricordare, espressa quale prestazione della coscienza dichiarativa, distinta in due forme principali di registrazione e rievocazione: quella delle vicende autobiografiche e quella di nomi, nozioni e dati. Non è superfluo sottolineare che, in neuropsicologia come nelle neuroscienze cognitive, i concetti operativi che definiscono i tipi di memoria designano una facoltà misurabile.

Ormai da quasi mezzo secolo l’indagine neuroscientifica e psicologica sulla memoria non può prescindere da una distinzione in tipi secondo criteri ormai generalmente condivisi. Le classificazioni compiute e dettagliate risentono dei metodi sperimentali adoperati per l’ottenimento dei dati alla base delle nozioni di riferimento di ciascun campo metodologico e, pertanto, possono presentare fra loro delle differenze; tuttavia, la distinzione nella memoria umana fra processi espliciti liberamente accessibili alla coscienza come contenuti del pensiero e processi impliciti che fungono da supporto all’agire mentale e materiale come automatismi inconsapevoli, è ormai universalmente accettata.

Si riporta qui di seguito una classificazione originata da studi neuropsicologici e di neuroscienze cognitive, ma accettata anche dai neurofisiologi e impiegata dai neurobiologi come riferimento umano per gli studi di comparazione con altre specie.

Si distinguono due ordini di processi: il primo, direttamente accessibile alla coscienza e comunicabile, definito memoria dichiarativa; il secondo, costituito da varie forme di conservazione dell’esperienza non accessibili al diretto esame cosciente, detto per contrasto memoria non dichiarativa[10].

La memoria dichiarativa costituisce la forma con la quale si identifica comunemente la facoltà umana di ricordare e consiste nella formazione e nel recupero dei ricordi coscienti: quando si dice che qualcuno ha una buona memoria, riferendosi a una capacità efficace ed efficiente nel ricordare nozioni, dati, nomi, fatti, persone e circostanze, si parla di questo tipo di processo. La memoria dichiarativa, prerogativa umana perché strettamente connessa al linguaggio verbale e al pensiero simbolico, è alla base dell’istruzione, della cultura e della comunicazione. In questa facoltà si riconoscono basi neurofunzionali apparentemente distinte per due tipi di processi: la memoria semantica, termine convenzionale col quale si indica la capacità di ricordare nozioni, nomi, numeri e dati, ossia unità di significato associate a una rappresentazione simbolica circoscritta; e la memoria episodica, ovvero la conservazione di esperienze di vita vissuta rievocabili come episodi esprimibili in una dimensione narrativa o descrittiva. Per queste caratteristiche, la memoria semantica costituisce il mezzo principale per l’apprendimento scolastico e professionale, mentre la memoria episodica rappresenta il patrimonio di conoscenza autobiografica di un soggetto.

La memoria non dichiarativa costituisce l’apprendimento non direttamente accessibile alla coscienza nei suoi contenuti, ma reso evidente da prestazioni, risposte e comportamenti. Se la memoria dichiarativa è un sapere qualcosa (knowing what), spesso l’apprendimento non dichiarativo consiste nell’acquisizione di un’abilità espressa come automatismi di esecuzione (knowing how) o di comportamento. Si distingue in memoria procedurale e memoria implicita.

La memoria procedurale, sulla quale si basano numerose attività della vita quotidiana, consiste in blocchi di procedure psicomotorie, schemi posturali e modelli d’azione, integrati e organizzati nella forma di configurazioni funzionali stabili (pattern) corrispondenti a definiti modelli di esecuzione. Nelle forme più semplici, come nella memoria procedurale necessaria ad andare in bicicletta, i modelli di esecuzione sono schematici; nelle forme più articolate, come quelle alla base dell’abilità di suonare uno strumento musicale a tasti o corde, ciascun pattern di base del movimento delle dita presenta repertori di varianti isomorfe, plasticità e integrazione.

La memoria implicita nell’uomo è distinta in tre tipi principali: associativa (emozionale e senso-motoria), non associativa (abitudine e sensibilizzazione) e impressiva (il cosiddetto priming).

Anche se i Tadié affrontano l’argomento delle basi biologiche della memoria umana in vari paragrafi, per lo più dedicati a riferimenti storici e nozioni molto elementari su neuroni e circuiti, finiscono per neutralizzarne il significato, perché loro stessi non ne hanno compreso il senso. Spigolando da libri mai studiati e convinti che “ancora non si è compreso nulla”, pongono l’uno accanto all’altro la descrizione della forma dei neuroni, nozioni sulla memoria cellulare, come il potenziamento sinaptico a lungo termine (LTP), nomi di neurotrasmettitori con commenti da pessima divulgazione di oltre cinquant’anni fa e un presunto funzionamento anatomico della memoria, con poco più di una pagina dedicata a una loro puerile ipotesi[11] sul “meccanismo di funzionamento globale della memoria”, che serve a cancellare un secolo di studi e riportare tutto nel calderone di una visione ottocentesca.

Infatti, per rendere plausibile l’operazione compiuta dai Tadié, si dovrebbe tornare a quando non si erano ancora distinti tipi funzionali di memorie diverse, ciascuna con la propria base neurobiologica. Gli scrittori e i poeti che, come loro osservano, attribuiscono un’importanza capitale ai loro ricordi, o a quelli dei loro personaggi, fanno riferimento ai contenuti di esperienza connessi quasi esclusivamente con un tipo di memoria esplicita o dichiarativa, ossia la memoria episodica. Non vi è dubbio che leggere i loro scritti possa aiutarci a conoscere aspetti importanti della nostra vita interiore, a stimolare lo sviluppo di un particolare tipo di sensibilità e darci il piacere di un testo che può costituire un’occasione per evocare sentimenti, affetti, emozioni e riflessioni. E non possiamo dimenticare che una parte degli effetti prodotti da un testo letterario può essere assimilata a quelli che si generano in noi nella fruizione delle opere di ogni altro campo dell’arte. Ma è evidente come questa preziosa eredità culturale, sviluppata nella dimensione del vissuto episodico, costituisca un alto livello di sintesi di processi, che implica una serie di convenzioni, a cominciare da quella linguistica, che denomina i sentimenti consentendo loro di esistere nel pensiero[12], per finire con quella dei modelli culturali e individuali che definiscono la scala di valori entro cui rappresentare e giudicare i fatti esperiti.

Criticabile anche la distinzione tra memoria e reminiscenza[13], perché la prima sarebbe secondo loro il recupero di un oggetto tal quale era stato percepito, secondo un antiquato modello del contenitore/contenuto, mentre la seconda richiederebbe uno sforzo di ricostruzione. È plausibile, in chiave letteraria, l’introduzione di questo criterio per distinguere due esperienze soggettive obiettivabili, così come appaiono nella realtà di ciascuno: ognuno di noi ha dei ricordi che affiorano limpidi e chiari alla mente e altri che richiedono uno sforzo di ricostruzione che, a volte, ha un esito che non ci lascia del tutto convinti. Non ha alcuna giustificazione ritenere che questi due differenti tipi di esperienza definiscano, a tutti i livelli, due tipi di memoria.

In realtà, oggi sappiamo che ogni rievocazione, richiamo, attualizzazione o esecuzione di una traccia memorizzata è sempre una ricostruzione: quando la traccia è bene consolidata, anche nelle sue connessioni interne, la ricostruzione automatica e involontaria fornisce alla coscienza un elemento che non richiede ulteriori processi cognitivi, quando la traccia è debole, dobbiamo compiere processi di associazione, induzione e deduzione per tessere in termini di plausibilità la trama che collega le tracce rimaste. In ogni caso, il procedere intuitivo e introspettivo dei Tadié si riferisce implicitamente alla memoria episodica, presentata come memoria tout court.

Nello stesso periodo in cui è stato pubblicato Il Senso della Memoria, vedeva le stampe l’edizione italiana di Alla ricerca della memoria – il cervello, la mente e il passato di Daniel L. Schacter, celebre professore della Harvard University che ha dedicato tutta la sua vita professionale a oservazioni cliniche e studi sperimentali sulla memoria, collaborando con i maggiori esperti del campo[14]. Schacter, che aveva cominciato a studiare i processi di registrazione e rievocazione nel 1975 con Herbert Crovitz e si era specializzato con Endel Tulving, in quel saggio aveva raccolto oltre venti anni di ricerche ed esperienze cliniche, con il contributo e la supervisione di una lunga lista di studiosi di fama internazionale, fra cui spiccano Elizabeth Loftus e il Premio Nobel Eric Kandel.

Tutt’altro che un lavoro esclusivamente tecnico, da contrapporre a un più piacevole testo redatto in stile letterario, il libro di Daniel Schacter si apre con una lunga citazione da Cent’anni di solitudine del Nobel per la Letteratura Gabriel Garcia Marquez, in cui si immagina che nel piccolo villaggio di Macondo si stesse propagando una strana malattia contagiosa che comportava la perdita della memoria per gradi, secondo quest’ordine: prima gli abitanti del piccolo centro perdevano i ricordi d’infanzia, poi i nomi e le funzioni degli oggetti e, infine, la consapevolezza del proprio essere. Per porre rimedio al problema, il fabbro del villaggio, che non riusciva più a ricordare la parola “incudine”, decide di etichettare ogni oggetto e finanche la mucca, sulla cui etichetta aggiunge che bisogna mungerla ogni girono per avere il latte necessario a fare il caffelatte. Angosciato dal pensiero di dover trascorrere la vita a scrivere etichette, il fabbro crea una macchina della memoria, una sorta di computer nel quale immagazzinare i ricordi di ciascun abitante del villaggio. Il lavoro si interrompe quando un uomo, che il fabbro credeva uno straniero, lo guarisce dalla malattia e, così, lui lo riconosce come un caro vecchio amico. Schacter prende le mosse da questo romanzo per descrivere il mondo visto con gli occhi dei suoi tanti pazienti amnesici o dismnesici, dei quali descrive le sindromi lungo la successione di capitoli che ripercorre il cammino compiuto dalla ricerca.

Uno dei pregi del libro consiste nel fornire spiegazioni a varie forme di confabulazione[15], quale effetto di iperattività compensativa da parte di strutture cerebrali indenni e simmetriche di quelle lese.

Un sessantunenne con lesione diffusa del lobo frontale destro, sposato da più di trent’anni, aveva perso i ricordi autobiografici di tutto quel periodo e ricordava di aver preso moglie solo da quattro mesi. I medici, cercando di aiutarlo a ricordare, gli rammentarono che aveva quattro figli, evidenziando la contraddizione con l’essere sposo recente, e lui rispose sorridendo: “Mica male per quattro mesi”. Gli chiesero allora l’età dei figli, e lui rammentò che il maggiore doveva averne 32 e il più giovane 22. Gli domandarono come fosse possibile per una coppia sposata solo da qualche mese, ma lui non si perse d’animo e con apparente certezza affermò: “Li abbiamo adottati”[16].

Altri interessanti esempi di confabulazione compensativa, ossia prodotta quando manca l’informazione intracerebrale che normalmente supporta la nostra consapevolezza, Schacter li fornisce descrivendo il paziente Frank, un avvocato sofferente di amnesia dell’origine[17], a causa di una lesione al lobo frontale destro, studiata mediante PET. Il paziente poteva ricordare quanto gli era stato detto dal proprio interlocutore poco prima, ma non rammentare che fosse stato lui a dirlo; così presentava anche falsi riconoscimenti di parole o oggetti nuovi, che lui ricordava erroneamente di aver già visto. Alcuni aspetti del comportamento ai test di Frank erano simili a quelli dei pazienti con cervello diviso, i quali, ricevendo l’informazione ad un solo emisfero, rivelavano il comportamento di un cervello privo della metà controlaterale. La lesione al lobo frontale destro faceva mancare il supporto informativo intracerebrale, inducendo per compensazione neurofunzionale la confabulazione, ossia l’invenzione estemporanea, dovuta all’attività eccessiva e non integrata del lobo frontale sinistro.

Concludendo con un sorriso, si può osservare che, mancando ai Tadié la conoscenza degli studi sulla memoria, si sono lasciati andare ad una confabulazione letteraria compensativa.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di studi di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-02 maggio 2020

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Questo concetto è stato espresso ed esposto analiticamente dal presidente della nostra società scientifica in numerose occasioni di studio della memoria; sollecitato da casi clinici di pazienti psichiatrici e neurologici esaminati già durante la sua formazione, ha lungamente indagato il rapporto fra i presupposti impliciti di identità presenti nelle memorie e lo psichismo attuale.

[2] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié, Il Senso della Memoria. Dedalo, Bari 2000. (Il volume è stato pubblicato con il contributo dei Ministeri della Cultura e degli Affari Esteri francesi).

[3] In particolare, Jean-Yves Tadié è considerato uno dei massimi esperti di Proust, al quale ha dedicato una ponderosa biografia e numerosi saggi, oltre ad aver curato un’apprezzata edizione de La ricerca del tempo perduto.

[4] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié, Il Senso della Memoria, p. 7, Dedalo, Bari 2000. Il volume nasce in Francia come progetto finanziato dal Ministero della Cultura e dal Ministero degli Affari Esteri.

[5] Al massimo: la psicologia cognitiva. Lo studio scientifico della memoria umana nasce in seno alla neurologia, che specializza la branca della neuropsicologia che studiava i disturbi della memoria da lesione cerebrale, accanto alle afasie e alle aprassie; dalla neuropsicologia sperimentale sono nate le moderne neuroscienze cognitive.

[6] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié, op. cit., pp. 10-11.

[7] Si era limitato a leggere, per il suo libro Materia e Memoria, molti studi sull’argomento.

[8] I tre processi sono la selezione durante lo sviluppo, la selezione guidata dall’esperienza e il rientro fra aree diverse del cervello.

[9] Jean-Yves Tadié e Marc Tadié, op. cit., p. 11.

 

[10] Cfr. “La Memoria e il Sonno”, nella sezione del sito AGGIORNAMENTI – scheda introduttiva, BM&L-Italia, Firenze 2007. Negli animali si adopera la distinzione più schematica in memoria esplicita, considerata un equivalente della memoria dichiarativa umana che, essendo legata al linguaggio verbale e all’uso di simboli, non è presente in quanto tale negli altri mammiferi e solo in parte è accostabile a processi presenti nelle scimmie antropomorfe, e memoria implicita, corrispondente alla non-dichiarativa della nostra specie.

[11] Verosimilmente di Marc Tadié.

[12] Si trascura spesso il fatto che il pensiero si sviluppa in ciascuno di noi come articolazione di significati grazie all’apprendimento dei concetti e del senso delle parole e delle frasi acquisiti con la lingua madre per imitazione e, poi, per studio scolastico. È possibile il pensiero non-verbale, e possiamo farne uso cosciente con i metodi di meditazione e le tecniche di rilassamento con concentrazione su immagini e stati del corpo e della mente; tuttavia, è innegabile che la massima parte del nostro pensiero sia costituita da linguaggio interno.

[13] Gli autori la ricavano da Aristotele ma, ponendola fuori dal contesto del modello speculativo adottato dal filosofo, come se fosse un assoluto fenomenico – così come fanno con tante altre distinzioni operate intuitivamente da scrittori sulla base di esperienze introspettive – la assumono quale paradigma e si avventurano in un lavoro creativo del tutto arbitrario che li porta a coniare la definizione di “reminiscenza senza ricerca” per il ricordo involontario. Cfr. Jean-Yves Tadié e Marc Tadié, op. cit., p. 23.

[14] Daniel L. Schacter, Alla ricerca della memoria – il cervello, la mente e il passato. Einaudi, Torino 2001. Il saggio è stato premiato con il William James Book Award della American Psychological Association e alla sua pubblicazione fu incluso tra i migliori libri dell’anno dalla New York Times Book Review.

[15] Dal latino cum fabula, l’espressione si riferisce a costruzioni, spiegazioni o racconti inventati per riempire falle di memoria.

[16] Cfr. Daniel L. Schacter, op. cit. p. 119.

[17] Questo disturbo era stato descritto da Giuseppe Perrella col nome di amnesia della fonte.